Questi estranei, i figli adolescenti!

Questi estranei, i figli adolescenti!

Una mia cara amica mi ha chiamato per chiedermi consiglio: sta male perchè in conflitto e in crisi con la figlia adolescente. Avevano un rapporto bellissimo, complice e affettuoso, fino a poco tempo fa. Ora si sente trattata dalla figlia come la peggior nemica, un ostacolo contro cui lottare e inveire, un “controllore” da cui nascondersi e fuggire.

Il rammarico sbigottito di questa mia amica è pienamente in linea con il sentimento più diffuso tra i genitori in questa fase del ciclo di vita della famiglia: stupore e dolore per un cambiamento inatteso:

un senso di mancata familiarità con il proprio figlio.

Per quanto i genitori sappiano che l’adolescenza è un periodo difficile, questo sentimento è molto doloroso da accogliere. É un sentimento inatteso e spiazzante, a tratti profondamente contraddittorio e paradossale. “Essere una famiglia”, assieme al proprio partner e soprattutto ai propri figli, è l’obiettivo e la cornice indiscussa entro la quale uno si aspetta e confida di poter affrontare qualsiasi difficoltà. Invece, ciò che il figlio adolescente sembra sfidare, insultare, rinnegare, è proprio questa cornice che ci racchiude, l’essere una famiglia.

Di fronte a questo, arrivano tutti impreparati e impotenti. Ma soprattutto, furibondi!

“Siamo una famiglia!!”

“ Mio figlia ci tratta come estranei!!”

“Questa casa non è un albergo!!”

Alzi la mano un genitore di figli adolescenti che non abbia mai pronunciato una di queste frasi.

Perchè succede questo?

Perchè sia genitori che figli sono dentro un paradosso. 

L’adolescenza è un invenzione relativamente recente. Nelle società tradizionali e preindustriali, si passava direttamente dall’infanzia all’essere adulti, con precisi doveri. Il riconoscimento di uno stadio di mezzo nasce all’inizio del novecento, quando comincia a diffondersi l’istruzione di massa e, sopratutto nelle famiglie borghesi, si instaura l’esigenza di prolungare il periodo di educazione individuale dei propri figli. Il primo psicologo a parlare di adolescenza fu Stanley Hall nel 1904.

Questa “invenzione” va di pari passo con un’altra caratteristica emergente di questa società: l’individualismo e l’importanza data alla realizzazione di sé come persona autonoma e indipendente dagli altri, in primis la famiglia.

Nasce così l’adolescenza, un periodo, sempre più lungo, in cui i giovani adulti in formazione hanno la possibilità di sperimentare varie forme e modi in cui questa realizzazione di sé può e, ad un certo punto (si spera), dovrà avverarsi.

Ma nasce così anche uno dei più grandi paradossi relazionali con cui attualmente siamo in grado di convivere: mentre i figli sono ancora di fatto totalmente dipendenti dai genitori nelle cose più importanti (aspetto economico in primis), devono cominciare a dimostrare, innanzitutto a se stessi, di essere individui realizzati e indipendenti, perchè si possa dire che il loro processo di formazione si stia svolgendo correttamente. Sono, di fatto, in un paradosso.

Cosa può fare un genitore con figli adolescenti?

I primi terapeuti della famiglia dicono che per uscire da un paradosso,  bisogna usare un altro paradosso.

I figli ci trattano come estranei? Cominciamo a fare lo stesso!

Ovviamente questa è una provocazione e una banalizzazione, che però riassume e indica una direzione:

aiutare i  figli a differenziarsi dai genitori.

Differenziarsi: divenire adulti autonomi e dotati di una loro personalità con cui avere una relazione alla pari.

Come vedete non stiamo parlando di individui separati, che non faranno più parte della vita dei genitori e viceversa, impegnati esclusivamente nella propria realizzazione personale.

Si tratta di cercare di sfruttare il fenomeno dell’estraneità a proprio favore. Quanto meno per renderci conto che spesso ciò che tolleriamo e giustifichiamo da parte di un familiare (da un figlio!) o viceversa ci permettiamo nei suoi confronti, non sopporteremmo/oseremmo mai nei confronti di un estraneo.

L’intimità e la complicità che si crea nei rapporti familiari è infatti un’arma a doppio taglio: ci sentiamo a nostro agio e liberi di essere “noi stessi”, spesso senza renderci conto di quanto nel fare questo perdiamo di vista l’altro e il rispetto dovuto. É una sottolineatura molto spesso fatta anche ai partner in una coppia. Figuriamoci per quanto riguarda un figlio, “carne della nostra carne”, niente di meno estraneo da noi! Molti colleghi psicologi mettono spesso in luce come i genitori percepiscano i figli come un prolungamento di se stessi. Questo certo non aiuta la differenziazione. Emblematico è a riguardo un vecchio detto dialettale, che molti lettori  riconosceranno: “come ti ho fatto ti disfo”.

Seguendo l’idea del paradosso, vi invito a chiedervi cosa fareste se un estraneo vi mancasse di rispetto, nel modo in cui spesso succede da parte di figli adolescenti?

Per estraneo d’ora in poi si intende chiunque non appartenga alla stretta cerchia familiare, pensiamo anche ad un amico o un conoscente. Per esempio, alla mia amica di prima, bastò pensare come avrebbe reagito con il suo compagno se si fosse comportato nello stesso modo della figlia. Nello specifico, la ragazza era rimasta fuori casa a dormire senza avvisare. “Quando sarebbe tornato, avrebbe trovato la porta chiusa!”.

Al di là della possibilità reale di reagire così con un figlio, cosa comunica una “porta chiusa”?

La comunicazione è la vera arma in possesso dei genitori, e di tutti noi, per crescere nelle relazioni.

“Il tuo comportamento mi ha ferito, se ti comporti così mi arrabbio/mi preoccupo/sto male”.

Quello formulato rappresenta un tipico messaggio-io il più gettonato e consigliato dagli esperti della comunicazione.

Si tratta di uno dei modi principali per affrontare e gestire il conflitto: invece di partire accusando l’altro, si parla di sè, di come il comportamento dell’altro ci abbia fatto sentire. Questo consente all’altra persona di non mettersi sulla difensiva contrattaccando a sua volta, in genere, fino all’escalation tipica del conflitto aperto.

I messaggi-io sono importantissimi soprattutto nella comunicazione con bambini e ragazzi

Essi imparano a dare significato al proprio comportamento e ai propri vissuti attraverso la funzione di rispecchiamento svolta dall’adulto. Ciò significa che spesso agiscono in modo impulsivo e inconsapevole, e il modo in cui noi comunichiamo con loro per renderli consapevoli è molto importante. I messaggi-io consentono ai  bambini e ragazzi di divenire consapevoli delle conseguenze dei loro agiti senza sentirsi colpevoli e sbagliati. 

Rimproveri e  accuse e ottengono tutt’altro effetto: fanno sentire colpevolesbagliata la persona. In psicologia sociale è provato che più una persona si sente sbagliata, più continuerà ad adottare comportamenti sbagliati. Rimproveri, accuse e punizioni sono spesso tentatativi di prolungare il controllo da parte dei genitori sul comportamento e le scelte di un figlio.

I messaggi io aprono la comunicazione, invece di chiuderla, consentendo all’altro di spiegarsi ed esporre le proprie ragioni.

Attraverso un confronto aperto di questo tipo, che può anche essere molto acceso a tratti, genitori e figli mantengono una connessione, mentre la loro relazione si trasforma.

Di fatto i genitori devono accettare che il loro ruolo si modifichi, non possono più rifarsi ad un ruolo di guida e/o autorità indiscussa.  I figli sono sempre più liberi di fare le proprie scelte, e spesso possono essere molto diverse da quelle che desidererebbero i genitori.

Anche i genitori quindi hanno il difficile compito di differenziarsi dai propri figli, di separarsi da loro, e questo è tanto più difficile e doloroso quanto più i genitori considerano i propri figli un prolungamento di sè.

Quando i figli adolescenti sono abbastanza maturi per fare le proprie scelte? Il giusto mix tra dipendenza-autonomia

Spesso succede che i figli pretendano libertà e mettono in atto comportamenti che noi riteniamo innanzitutto dannosi per sè.

Purtroppo non esiste una ricetta per trovare il giusto livello di “libertà” da concedere ai figli. Propongo una metafora illuminante utilizzata da un famoso pedagogista per definire la funzione educativa: lo scaffolding.Letteralmente, il termine significa “impalcatura”: un genitore affianca e sostiene un figlio, anche sostituendosi a lui, fino a quando e fin dove non è in grado di fare da solo. Quando il bimbo nasce, dipende completamente dal genitore, a partire dalla funzioni primarie. Mano a mano che il bimbo cresce diviene autonomo, da un lato perchè apprende a svolgere da solo le funzioni, dall’altro perchè l’adulto si sottrae e lascia che il figlio faccia da solo. Proprio come un’impalcatura che,  mano a mano che la costruzione procede, viene sottratta e l’edificio sta in piedi da solo. Fino a quando non vi è più nessuna impalcatura.

Questo compito è particolarmente difficoltoso nell’adolescenza, per più motivi:

  1. bisogna riuscire a distinguere dove, in quali aspetti un figlio è in grado di farcela da solo, è pronto o, come si dice, “maturo”, per fare le sue scelte. Non è assolutamente semplice: se durante l’infanzia molte tappe sono abbastanza simili tra i bambini, in adolescenza e giovane età ci si differenzia molto.
  2. laddove ci  si renda conto che il figlio non è “autonomo” in alcuni campi, di fatto spesso bisogna imporre il proprio esserci come genitori, a fronte di estenuanti pretese dei ragazzi a essere trattati come adulti.
  3. spesso  si commette l’errore di valutazione contrario: si pretende di esserci laddove ci si potrebbe sottrarre e lasciare decidere/agire il figlio autonomamente. Ed è la difficoltà di cui si parlava prima, dei genitori a differenziarsi e separarsi dai propri figli, ma anche dal proprio stesso ruolo di genitore come “impalcatura”. É un ruolo a cui ci si affeziona molto e può essere difficile da abbandonare. Ma bisogna farlo, perchè l’edifico stia in piedi da solo

Si dice spesso che laddove non arrivi la “scienza” a darci delle spiegazioni esaurienti, ci pensano arte, letteratura e poesie.

La parola dunque ad un poeta:

I vostri figli non sono i vostri figli.
Sono i figli e le figlie dell’ardore che la Vita ha per sé stessa.
Essi non vengono da voi, ma attraverso di voi,
e non vi appartengono benché viviate insieme.
Potete dar loro il vostro amore, ma non i vostri pensieri,
poiché essi hanno i propri pensieri.
Potete custodire i loro corpi, ma non le loro anime,
poiché abitano case future, che neppure in sogno potreste visitare.
Potete sforzarvi di essere simili a loro,
ma non cercate di rendere essi simili a voi,
poiché la vita procede e non si attarda su ieri.
Voi siete gli archi da cui i vostri figli come frecce vive,
sono scoccati lontano.
L’Arciere vede il bersaglio sul sentiero infinito
e con la forza vi tende,
affinché le sue frecce vadano rapide e lontane.
Fate che sia gioioso e lieto questo vostro essere piegati dalla mano dell’Arciere,
poiché, come ama il volo della freccia,
così Egli ama anche l’arco che è saldo.

Kahlil Gibran